Afragola, il femminicidio di Martina e l’educazione che non c’è

di Giuseppe Miccoli

Un altro femminicidio. Questa volta ad Afragola. Martina, 14 anni, uccisa dall’ex fidanzato. Sullo sfondo, ancora una volta, una società che piange davanti al fatto compiuto ma continua a riprodurne le condizioni. Lo psichiatra Paolo Crepet, chiamato a commentare la tragedia, non usa mezzi termini: siamo di fronte a un fallimento educativo profondo, strutturale, alimentato da adulti che da tempo hanno rinunciato a fare gli adulti.

Secondo Crepet, milioni di genitori oscillano tra l’indignazione postuma e l’accomodamento quotidiano. Ai figli viene concesso tutto, orari sregolati, denaro, assenza di regole. «Dare 70 euro a sera pur di toglierseli di torno» — sintetizza Crepet — è diventato il surrogato del prendersi cura. Un modello educativo che abdica ai social, alla strada, ai meccanismi dell’auto-esposizione digitale. Una pedagogia rovesciata, fondata sull’evitamento e sulla paura del conflitto. Finché poi l’educazione la fa la cronaca nera.

Dietro il delitto di Afragola non c’è solo la violenza di genere, ma un vuoto identitario generalizzato, nutrito da un narcisismo patologico che i social amplificano e legittimano. Ragazzi e ragazze cresciuti nella continua ricerca di approvazione, incapaci di elaborare il rifiuto, trasformano la frustrazione in violenza. L’altro diventa oggetto, il «no» una ferita narcisistica insopportabile. La società dell’apparire produce adolescenti onnipotenti e fragili, per i quali la perdita del controllo coincide con la perdita dell’identità stessa.

L’appello di Crepet è chiaro: ricostruire un’alleanza educativa tra scuola e famiglia. Ma le famiglie, oggi, sembrano spesso spettatrici, quando non complici, di un modello culturale che deresponsabilizza l’adulto e infantilizza il minore. La scuola, lasciata sola, arranca. Percorsi di educazione emotiva, gestione della rabbia, riconoscimento dei limiti sono proposti, ma senza un contesto familiare che li sostenga, restano tentativi isolati. Intanto l’esposizione incontrollata ai social e la mancanza di riferimenti etici continuano a fare da sfondo.

La società che piange Martina è la stessa che continua a produrre le condizioni della sua morte. La stessa che invoca giustizia mentre tollera — anzi, promuove — modelli culturali che spettacolarizzano la violenza, romanzano il possesso, normalizzano l’assenza di limite. Per Crepet, la questione non è solo educativa, ma profondamente culturale. Per cambiare rotta servirebbe un gesto di responsabilità collettiva che oggi, ancora una volta, non si vede.

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