“alle 7 si cena”

di Giuseppe Miccoli

Negli anni ’90 e nei primi 2000 i bambini delle elementari e delle scuole medie uscivano di casa senza telefonino. Non c’era WhatsApp, non c’erano chat di gruppo dei genitori, non esisteva la possibilità di inviare messaggi vocali ogni dieci minuti. Eppure, quelle generazioni sono sopravvissute, e non solo: hanno imparato a muoversi nel mondo con regole semplici, accordi chiari e una fiducia che oggi sembra quasi impensabile.

Il telefono, quando c’era, era fisso, legato a un muro di casa. Le regole erano poche: “alle 7 si cena”, “alle 5 devi essere sotto il portone”, “non andare troppo lontano”. E funzionavano. I bambini imparavano presto a orientarsi, a riconoscere punti di riferimento, a rispettare orari. Non c’era la possibilità di scrivere un “dove sei?” in tempo reale: c’era l’attesa. Se non eri puntuale, sapevi che qualcuno si sarebbe preoccupato, e la responsabilità era tutta tua.

Oggi può sembrare incredibile, ma i bambini degli anni ’90 crescevano con una libertà che andava di pari passo con un senso di responsabilità precoce. Si usciva in bici, si passavano pomeriggi interi nei cortili, si andava in edicola, a comprare figurine o a giocare ai videogiochi da un amico. La comunicazione non era costante, era intermittente, e proprio per questo più significativa. L’assenza di controllo continuo non significava abbandono, ma fiducia.

Le famiglie di allora non vivevano nell’ansia per ogni spostamento. Certo, esistevano i rischi, gli imprevisti, ma erano parte integrante della crescita. Se un bambino tornava a casa con le ginocchia sbucciate o con il quaderno dimenticato, non c’era una chat istantanea per avvisare o per tamponare l’errore: si imparava sul campo. L’autonomia non era una conquista adolescenziale, ma un esercizio quotidiano fin dalle elementari.

Oggi, invece, la reperibilità è totale. I bambini crescono con lo smartphone in tasca, con i genitori che scrivono su WhatsApp “dove sei?”, “con chi sei?”, “manda la posizione”. È un paradosso: abbiamo più strumenti di controllo, ma meno fiducia. Il cellulare riduce i rischi percepiti, ma rischia di soffocare la possibilità di sviluppare orientamento, memoria dei luoghi, capacità di cavarsela.

Non si tratta di rimpiangere il passato o di demonizzare il presente. Ogni epoca ha le sue sfide. Ma la domanda è: stiamo davvero proteggendo i nostri figli con il controllo digitale, o stiamo solo togliendo loro la possibilità di crescere liberi? Negli anni ’90 non c’era WhatsApp, eppure i bambini giocavano nei cortili, andavano a scuola da soli, organizzavano partite improvvisate nei campetti. Oggi, con mille chat e notifiche, rischiamo di crescere ragazzi che sanno rispondere in tempo reale ma non sanno più orientarsi senza Google Maps.

Forse la lezione di quegli anni è che non serve sempre un messaggio istantaneo per sentirsi sicuri. Bastano poche regole chiare, fiducia reciproca e una comunità che condivide la responsabilità. Perché l’infanzia non è fatta per stare sotto sorveglianza continua, ma per provare, sbagliare, tornare a casa stanchi e un po’ spettinati, con la certezza che qualcuno ci aspetta.

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