#Blockout2024: la disconnessione come atto politico

di Giuseppe Miccoli

Non è un boicottaggio. È un blackout. Una forma di protesta digitale, silenziosa ma potentissima. Si chiama #Blockout2024 ed è l’ultima risposta di una rete che non vuole più essere solo spettatrice, ma parte attiva della realtà. Migliaia di utenti – soprattutto giovani – hanno cominciato a bloccare in massa influencer, creator e celebrità. Non per una polemica passeggera, ma per la loro complicità nel silenzio.

Il tema è la guerra a Gaza. O meglio: la loro assenza di commenti, prese di posizione, o anche solo di empatia. Per chi ogni giorno subisce notizie di bombardamenti, bambini morti e profughi senza più niente, vedere star internazionali postare outfit e sponsorizzazioni come se niente fosse diventa insopportabile. Ed ecco allora l’azione: blocco sistematico degli account. Un gesto che toglie potere economico (meno follower, meno engagement) e simbolico (meno visibilità).

È una forma di pressione dal basso che non passa dai partiti, ma dagli schermi. Un sabotaggio dell’algoritmo, che si ribalta contro chi ha costruito imperi sull’attenzione. In un mondo dove il silenzio di chi ha milioni di seguaci è una scelta politica, gli utenti decidono di togliere la propria attenzione, trasformandola in dissenso.

#Blockout2024 non è solo una protesta contro chi tace, ma anche un’indagine collettiva sul ruolo pubblico delle celebrità. Su cosa significa avere un’enorme piattaforma in tempi di guerra. Su chi merita davvero la nostra attenzione, il nostro tempo, il nostro follow.

È la vendetta della coscienza contro la neutralità forzata del marketing. E in questa battaglia simbolica, il blocco è il nuovo voto. L’unfollow è il nuovo sciopero. Il feed pulito è il nuovo manifesto.

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