Blog, siti e giornali online nell’era dei social: resistere o scomparire?

di Giuseppe Miccoli

Una volta c’erano i blog. Spazi liberi, artigianali, in cui chiunque poteva aprirsi un varco nell’infosfera: scrivere, raccontare, creare comunità attorno a un pensiero. Oggi, vent’anni dopo, quei luoghi sembrano deserti virtuali, visitati da pochi nostalgici o da lettori che cercano approfondimenti fuori dal rumore delle piattaforme. Ma è davvero finita l’epoca dei blog?

La verità è più complessa. Il blog non è morto: si è trasformato. Resiste come nicchia, come voce indipendente che non accetta la dittatura dell’algoritmo. Alcuni giornalisti, ricercatori e attivisti lo usano ancora per coltivare analisi lunghe, testi che sui social non avrebbero diritto di cittadinanza. Il blog è diventato un piccolo rifugio dal tempo breve dell’“engagement”. E forse proprio qui sta la sua utilità: essere controcorrente, lento, ostinato.

I siti internet tradizionali, invece, non sono più la prima porta d’ingresso. Le persone non digitano più indirizzi: scorrono feed. Eppure, il sito rimane il luogo della casa digitale, l’archivio stabile, la memoria che i social non garantiscono. Un’associazione, un teatro, un giornale, se vogliono esistere davvero, devono avere un sito: non per inseguire i clic, ma per lasciare una traccia che non evapori dopo ventiquattr’ore.

E i giornali online? Resistono a fatica. Il modello pubblicitario è in crisi, le notizie corrono più veloci su X, TikTok, Instagram. Ma non si può ridurre l’informazione a un video di trenta secondi o a un titolo deformato dall’algoritmo. La sopravvivenza del giornalismo online passa dall’autorevolezza e dall’approfondimento, non dal clickbait. Chi legge ancora i giornali online lo fa per cercare verità, contesto, complessità.

Certo, la colpa della crisi è anche dei social. Non solo perché hanno concentrato pubblico e investimenti, ma perché hanno modificato le abitudini cognitive. Scorriamo, non leggiamo. Condividiamo, non approfondiamo. È cambiata la grammatica dell’attenzione, e i giornali hanno rincorso quel modello invece di opporvisi.

Il punto è che oggi le persone visitano più i social che i siti. Ma questo non significa che i siti siano inutili. Significa che devono smettere di competere sul terreno dei social e tornare ad essere altro: luoghi di scrittura lunga, di archiviazione, di approfondimento.

Forse, allora, la domanda non è “scompariranno?”, ma “quale ruolo vogliamo che abbiano?”. Un ruolo residuale, marginale, oppure quello di spazi di resistenza culturale dove la parola non è un post da consumare, ma un pensiero da sedimentare.

Il blog, il sito, il giornale online non possono vincere in quantità di pubblico. Ma possono vincere in qualità, se avranno il coraggio di non piegarsi alla velocità della rete. La sfida è politica, prima che tecnologica: difendere la scrittura dal dominio delle piattaforme.

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