Bracciali, cartoni e pubblicità: l’infanzia venduta in offerta speciale.
Bracciali, cartoni e pubblicità: l’infanzia venduta in offerta speciale
di Giuseppe Miccoli
Ogni pomeriggio, mio figlio di quattro anni si siede sul divano, sceglie un cartone e si immerge nel suo piccolo mondo incantato. Venticinque minuti di spensieratezza: draghi gentili, costruzioni magiche, animali parlanti. È un tempo che dovrebbe essere sacro, innocente, preservato. Ma non lo è.
Tra un episodio e l’altro, arriva lei: la pubblicità. Prima una merendina, poi un peluche, poi — in vista della Festa della Mamma — lo spot dei bracciali. Non un brand qualsiasi, ma uno di quelli che ha colonizzato l’immaginario affettivo con cuori, charm, promesse d’amore. “Ama tua madre, regalale questo.” Immagini patinate, mani perfette, luci calde. Lo spot si ripete, giorno dopo giorno, e lui lo memorizza. Fino a guardarmi negli occhi e dire: “Papà, lo prendiamo anche noi per la mamma?”
E alla fine, sì. Lo compri. Perché sei stanco. Perché il bambino ti guarda con quella convinzione candida. Perché in fondo non vuoi deluderlo. Ma poi ti chiedi: è giusto tutto questo?
In teoria, la pubblicità rivolta ai minori dovrebbe essere regolamentata. Ma nella pratica, durante i cartoni del pomeriggio, gli spot si infilano come insetti tra le crepe. Non parlano direttamente al bambino, ma lo aggirano. Lo seducono. Lo trasformano in alleato inconsapevole del consumo. La Festa della Mamma, così, da occasione per riflettere sull’affetto diventa un pretesto per acquistare. Il messaggio è chiaro: l’amore va dimostrato con un oggetto. Il bracciale è il mezzo, il bambino è il messaggero, il genitore è il terminale del desiderio indotto.
Il risultato è una pedagogia pubblicitaria tossica, che entra nelle case e si appropria del linguaggio dell’affetto. La madre nello spot è sempre sorridente, pettinata, grata per quel dono. Nessuno mostra le occhiaie, le corse in macchina, i sensi di colpa. Nessuno dice che l’amore di un figlio è fatto di sguardi, disegni storti e colazioni appiccicose.
Siamo arrivati al punto in cui i bambini diventano vettori del marketing affettivo. Sono loro a chiedere, a convincere, a trasmettere. E noi, troppo spesso, esitiamo a dire no. Oppure non ci accorgiamo nemmeno di quello che sta accadendo.
Altri Paesi, come la Svezia, vietano del tutto la pubblicità ai minori. In Italia, invece, regna l’autoregolamentazione. Un sistema blando, inefficace, che lascia i bambini esposti e i genitori disarmati. Il profitto vale più della tutela.
E allora, cosa possiamo fare? Iniziare col dire le cose come stanno: che no, non è normale che un bambino venga usato come leva per vendere bracciali. Non è giusto che l’amore diventi un pretesto pubblicitario. E che forse, la Festa della Mamma sarebbe più autentica se fosse fatta di meno spot e più tempo, meno regali e più presenza. Perché ci sono momenti dell’infanzia che nessun brand potrà mai comprare.