Cambiamento climatico: cosa succede nel mare nostrum e cosa cambia sulla nostra tavola
Di M. Laura Crescimanno
Il cambiamento climatico e lo sconvolgimento degli equilibri ecologici in Mediterraneo, a sentire gli scienziati, è già in atto e le conseguenze arrivano dritte sulla nostra tavola. Un esempio concreto? Presto, per non dire già da adesso, in Sicilia ci capiterà di mangiare, a nostra insaputa, la pasta con le alacce, e non più con le ben più note sarde. E non perchè le sarde siano rimaste a mare, come vuole la tradizione fuori stagione o nell’annata di scarsa cattura, ma perché, a causa del cambiamento climatico, di sarde e sardine, nei nostri fondali, ce ne saranno sempre meno.
Come spiegano gli esperti di stock ittici del CNR di Mazara del Vallo, uno dei centri di ricerca più all’avanguardia in Italia, il mancato scambio delle correnti dovuto al surriscaldamento del mare, e dunque la mancanza dei nutrienti, sta causando un problema di ripopolamento delle nursery delle nostre care sardine. Un pesce piccolo, povero, gustoso, molto noto ai pescatori delle coste nord del Mediterraneo, di cui i siciliani sono sempre stati maestri di pesca.
Oggi, se da una parte registriamo meno presenza di sarde e sardine, spiega il ricercatore Fabio Fiorentino, registriamo un aumento di pesca di alacce, che per i palati meno esperti si possono sostituire in cucina ai filetti di sarda, anche se le prime sono molto più ricche di lische e vanno dunque pulite in modo diverso e la carne è più magra e meno saporita.
Insieme alle alacce, ed ai caponi, ovvero le lampughe, aumentano nei fondali rocciosi e sui banchi del centro del canale di Sicilia, le triglie. Specie queste che amano le acque più calde.
La lampuga, un pesce che singolarmente mantiene lo stesso nome in molti paesi della sponda nord, inclusa Malta, a testimoniare le matrici comuni marinare del Mediterraneo, non sembra al contrario diminuire.
Ma la questione legata al cambiamento climatico in atto nei nostri mari non è affatto semplice, dato che si combina in modo micidiale con l’azione delle micro plastiche in mare, che attraverso il pesce entra nella catena alimentare e con il conseguente e generale depauperamento degli stock ittici.
Come spiega meglio Fiorentino ”l’ andamento che abbiamo osservato in questi ultimi anni per altre specie, come il merluzzo o le acciughe, è in effetti altalenante. Ma il punto non è fare previsioni, per cui se servisse una banca dati condivisa con gli altri paesi frontalieri che vivono di pesca come la Tunisia e la Libia, semmai intervenire in tempo per la salvaguardia della risorsa ittica, con iniziative di fermo di pesca coordinate e congiunte”.
Oggi in Mediterraneo non esiste una politica di uso delle risorse ittiche comune ed i consumatori, poco educati al rispetto della biodiversità marina, sono complici a loro volta.
Secondo dati forniti dalla rete Italiana dialogo Euro-mediterraneo, che ha censito i 7 principali paesi che si affacciano sul bacino, oggi si contano circa 300 specie di pesce commestibile, senza includere crostacei e molluschi, ma delle 143 specie catturate e censite, i consumatori portano in tavola solo 10 specie di pesce che sono sovra sfruttate, per non dire di una quota altissima di pesce povero, sino al 60%, che viene rigettata in mare.
Il Mediterraneo, ha più volte affermato l’ecologo marino dell’ ISPRA Franco Andaloro, è un mare chiuso che cambia rapidamente. Il cambiamento delle temperature del mare sta provocando il proliferare di troppe specie aliene che provengono dai mari caldi, ultimo allarme per gli scienziati è quello legato ai granchi blu (blu crab), ma negli anni passati i pescatori erano già stati allertati sul caso del pesce palla mascherato, specie velenosa, da non sfilettare e mettere sui banchi del mercato.
Se oggi gli stock ittici si stanno esaurendo, ed il Mediterraneo diventa sempre più un mare malato, non è solo colpa dei pescatori, piuttosto il vero imputato è lo sviluppo antropico dissennato degli anni passati il transito incontrollato delle petroliere, gli scarichi chimici dei fiumi ed in ultimo, gli inquinanti rilasciati dai relitti, le reti abbandonate e le microplastiche che viaggiano da una sponda all’altra. Tutto quello che oggi va sotto il nome di “marine littery”, cioè l’ impressionante quantità di spazzatura che proviene dalle attività umane e che finisce sui fondali.