Il culto del brufolo. Perché ci filmano mentre ci spremiamo la faccia

di Giuseppe Miccoli

In un angolo remoto del digitale — che poi tanto remoto non è — esiste un culto che sfida le logiche canoniche della decenza estetica e della rappresentazione pubblica di sé: quello dello pimple popping, l’arte (o la pratica, o il vizio) di spremersi i brufoli davanti a una videocamera, per poi offrirne lo spettacolo al giudizio collettivo dei social network.

Non si tratta di una deviazione marginale. Su TikTok, su Instagram, su YouTube, milioni di video ritraggono individui — spesso giovani, spesso donne, talvolta professionisti dermatologi — impegnati nell’atto catartico dello svuotamento del poro. Le visualizzazioni sono nell’ordine dei miliardi. Pagine intere di follower adoranti commentano con cuori, espressioni di sollievo, perfino con gratitudine: “Grazie, ora posso dormire serena”; “Finalmente un video soddisfacente dopo una giornata di ansia”.

Ma che cosa accade realmente? Perché un gesto che fino a pochi anni fa si consumava nel più stretto privato del bagno domestico, è diventato ora uno spettacolo planetario?

Freud avrebbe sorriso. O forse rabbrividito. Il fascino ambiguo del disgusto ha radici profonde: il nostro cervello, di fronte a immagini che sollecitano contemporaneamente repulsione e piacere, resta in sospensione. È un meccanismo di sublimazione pop: il brufolo spremuto è la metafora perfetta di un’ansia evacuata, di una pressione eliminata, di una tensione che trova sfogo. Lo sporco, il pus, il sebo vengono espulsi: ciò che è dentro — e che ci disturba — viene finalmente espulso fuori.

Non è un caso che molti video vengano montati con sottofondi ASMR, accompagnati da suoni morbidi e ovattati. Il pubblico si rilassa, il corpo si purifica. La dermatologia incontra la psicologia pop, il disgustoso si fa terapeutico.

In tempi di algoritmi che premiano il volto levigato e i filtri estetici, l’esibizione del brufolo produce una sorta di contronarrazione, o almeno così si presenta. È la pornografia dell’imperfezione: finalmente un corpo che non nasconde il suo lato organico, finalmente la pelle che ammette le proprie scorie. Ma anche qui il confine è ambiguo: molti video non sono un inno all’accettazione, quanto piuttosto un’esasperata ritualizzazione della rimozione del difetto.

Il brufolo deve essere mostrato — certo — ma solo per essere eliminato. Il corpo imperfetto diventa spettacolo solo nella misura in cui è purificato. L’estetica social dell’autenticità si nutre di questa messinscena: l’imperfezione come contenuto da monetizzare, la pelle come campo di battaglia per un’estetica dell’espulsione.

Naturalmente, dietro il fenomeno si muove anche il mercato. Professionisti del settore — dermatologi, estetiste, perfino marchi di skincare — sfruttano il voyeurismo collettivo per vendere prodotti e servizi. Un poro ostruito spremuto bene è una promessa pubblicitaria potentissima: “Vedi? Con i nostri trattamenti, la tua pelle sarà così pulita”.

Gli algoritmi, dal canto loro, hanno imparato a riconoscere la potenza di engagement di questi video: durano pochi secondi, producono reazioni viscerali, generano commenti, condivisioni, rewatch compulsivi. Il risultato? Più tempo di permanenza sulle piattaforme, più dati profilati, più pubblicità venduta.

C’è, in fondo, una dimensione ancora più profonda e disturbante in questa deriva del digitale: il corpo come superficie narrativa, come schermo su cui proiettare angosce e sollievi. Spremere un brufolo davanti a milioni di persone è, paradossalmente, un gesto di controllo su un mondo caotico.

Mentre fuori imperversano crisi climatiche, guerre, precarietà economiche e instabilità psicologiche diffuse, il brufolo offre un piccolo dominio domestico da esercitare: un problema visibile, delimitato, risolvibile. Il piccolo pus che esce è la metafora di tutto ciò che vorremmo espellere — dalla nostra pelle, dalla nostra mente, dalla nostra società.

Nel frattempo, il flusso continua. Tra un video motivazionale e un tutorial di trucco, ci appare ancora il dito indice che preme, la pelle che si tende, la perla bianca che fuoriesce. C’è qualcosa di inquietante e insieme rassicurante in questo rito collettivo.

In fondo, forse, stringiamo il telefono non tanto per guardare loro, quanto per guardare noi stessi — nelle nostre paure, nelle nostre ossessioni, nei nostri piccoli desideri di purificazione.

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