Facebook e il ritorno delle community a pagamento

Facebook, il social che ha costruito la propria fortuna sulla retorica dell’apertura universale, oggi cambia pelle. Meta spinge verso le community a pagamento, gruppi riservati in cui l’ingresso si conquista con un abbonamento. Un ritorno al passato che stride con l’immagine della piattaforma come piazza globale.
A prima vista la mossa ha un senso: offrire strumenti di monetizzazione ai creatori di contenuti, permettere a chi gestisce comunità online di sostenere economicamente il proprio lavoro. Ma il rovescio della medaglia è evidente: il libero accesso alla conoscenza diventa un lusso.
I social erano nati per abbattere barriere. Oggi costruiscono recinti. Non più flusso libero di informazioni, ma frammentazione: piccoli club digitali per chi può permetterselo. La logica non è “tutti partecipano”, ma “solo chi paga ha diritto alla parola”.
Questa trasformazione non è neutrale. È un passaggio politico: accettare che la comunicazione digitale diventi privilegio. Non più diritto universale di cittadinanza, ma bene commerciale da acquistare. La dimensione collettiva cede il passo a micro–comunità chiuse, a pagamento, in cui si riproducono le stesse disuguaglianze del mondo offline.
Il rischio è di creare un ecosistema digitale a due velocità: chi resta negli spazi aperti, sempre più svuotati e marginali, e chi si rifugia nelle enclave esclusive. La promessa della rete come spazio di incontro universale si dissolve.
Meta giustifica la scelta come un modo per sopravvivere alla crisi di Facebook, sempre meno centrale tra i giovani e fagocitato da TikTok. Ma la cura rischia di uccidere il paziente: recintare ciò che era nato per essere aperto.
La vera domanda è se siamo disposti ad accettare che la sfera pubblica digitale venga spezzata in mille condomini privati. Perché una comunità chiusa non è più comunità: è mercato.
Giuseppe Miccoli