Fine della gratuità? I social diventano a pagamento

I social non sono più sinonimo di gratuità. Dopo anni di piattaforme sostenute dalla pubblicità, emergono formule a pagamento: Snapchat Plus, Twitter Blue, pacchetti premium per Facebook e Instagram. Il modello cambia: l’utente non è più solo merce da vendere agli inserzionisti, ma diventa cliente da conquistare.

La promessa è allettante: meno pubblicità, più funzioni, status riconosciuto. Ma la domanda resta: quanti sono disposti a pagare per avere un feed più pulito o un badge blu accanto al nome? E soprattutto: quale frattura sociale si apre tra chi può permetterselo e chi resta nel recinto gratuito, pieno di inserzioni e limiti?

Dietro la scelta di monetizzare c’è la crisi del modello pubblicitario. Le aziende investono meno, gli utenti sono saturi di spot mascherati da contenuti. I social cercano allora nuove entrate, puntando sull’abbonamento. Ma così si rompe l’illusione democratica della rete. Non più spazio uguale per tutti, ma stratificazione di status.

Twitter Blue lo dimostra: il badge non è più certificazione di autorevolezza, ma semplice prova di pagamento. L’affidabilità diventa questione di carta di credito. In questo scenario, il rischio è che la comunicazione perda ancora più credibilità, riducendosi a gara tra chi può comprare visibilità e chi resta invisibile.

Eppure c’è un lato positivo: pagare potrebbe restituire all’utente un ruolo più attivo, meno passivo. Un rapporto diretto con la piattaforma, non mediato dalla pubblicità. Ma è davvero così? O è solo un altro modo per estrarre valore da comunità già logorate?

La fine della gratuità non è un dettaglio economico, è un segnale politico. Indica che l’era dell’illusione di accesso universale si chiude, e che la rete torna a riflettere le disuguaglianze del mondo offline. In un tempo in cui la comunicazione è bene comune, renderla a pagamento significa ridurre ulteriormente lo spazio democratico.

Il futuro dei social sarà forse ibrido: un livello gratuito di massa e un livello premium per pochi. Ma la domanda resta aperta: vogliamo davvero che il diritto a comunicare dipenda da un abbonamento mensile?

Giuseppe Miccoli

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