Gen Z in rivolta in Nepal: la rivolta dei social bruciati

Katmandu in fiamme. Giovani in piazza, ministri in fuga, il coprifuoco che non basta a fermare la rabbia. Dall’8 settembre il Nepal vive una crisi che ha il sapore di un passaggio di epoca: non solo proteste contro la corruzione, ma una generazione che pretende di contare. Una Gen Z che ha imparato a respirare attraverso lo schermo dei social e che si è vista, di colpo, privata di quell’ossigeno.
Il ban del 4 settembre. Il governo di Khadga Prasad Sharma Oli aveva messo al bando 26 piattaforme digitali: Facebook, YouTube, X, LinkedIn, lasciando in piedi solo TikTok, l’unica ad avere rispettato la registrazione ministeriale. La motivazione ufficiale parlava di “trasparenza” e “supervisione statale”. Ma per milioni di giovani nepalesi era solo censura. E per molti critici, un tentativo disperato di blindare il potere in un Paese già lacerato da corruzione, clientelismi e promesse mancate.
La scintilla. Da anni il malcontento covava sotto la cenere. La disoccupazione giovanile sfiora il 20%, mentre la classe politica continua a garantire privilegi e ricchezze ai propri figli. È lì che nasce l’hashtag #NepoKids, diventato un grido collettivo. Su TikTok video e meme contrappongono lo sfarzo dei figli dei leader politici alle vite precarie dei coetanei, costretti spesso a emigrare. Non più solo ironia, ma denuncia sociale che si è trasformata in rivolta di massa.
Il sangue nelle strade. Il 9 settembre la polizia ha aperto il fuoco. Almeno 34 i morti, centinaia i feriti. Il premier si è dimesso, insieme a vari ministri, ma la piazza non si è fermata. Katmandu ha visto bruciare il palazzo presidenziale, la corte suprema, le residenze di leader politici. La rivolta non conosce bandiere di partito: è generazionale, trasversale, diretta contro un’intera classe dirigente.
Una generazione senza voce. La Gen Z nepalese non è solo arrabbiata: è connessa, consapevole, capace di auto-organizzarsi. In un Paese in cui l’emigrazione giovanile è una costante, i social sono diventati il filo che tiene insieme famiglie divise, amicizie lontane, reti di sopravvivenza quotidiana. Oscurarli ha significato spezzare quel legame. Non è un caso che la protesta si sia alimentata proprio lì, negli spazi digitali che il potere voleva cancellare.
Oltre la caduta del governo. La costituzione del 2015 prevede la nomina di un nuovo premier attraverso il parlamento. Ma oggi le regole sembrano carta straccia: i leader storici hanno perso ogni legittimità, la piazza rifiuta compromessi. Tra i nomi emersi c’è quello di Sushila Karki, ex capo della corte suprema, indicata da una delegazione di manifestanti come figura capace di guidare un governo ad interim. Ma la partita è aperta, e l’esercito – pur tra repressione e trattative – sa che non può più semplicemente imporre il silenzio.
Simboli del cambiamento. A guidare l’immaginario della rivolta ci sono due volti: Balendra Shah, 35 anni, rapper e sindaco di Katmandu eletto nel 2022 con un programma di pulizia urbana, e Rabi Lamichhane, ex giornalista televisivo evaso dal carcere durante gli scontri. Figure populiste, irregolari, ma percepite come più vicine alla rabbia della strada che ai palazzi.
Un Paese sospeso. Più che un cambio di governo, la piazza chiede una rifondazione. Le immagini di giovani che danzano davanti agli edifici in fiamme ricordano al mondo che la politica non può continuare a ignorare una generazione esclusa. Perché il futuro del Nepal non si scriverà nei corridoi di un parlamento screditato, ma nelle connessioni digitali che i ragazzi difendono come fossero pane.
La Gen Z ha parlato. Lo ha fatto urlando, ballando, postando, rischiando la vita. Se il potere vorrà davvero sopravvivere dovrà ascoltarla. Altrimenti, come dimostrano le strade di Katmandu, non ci sarà più spazio per mediazioni.