Una generazione con l’AirTag cucito nei vestiti

di Miccoli Giuseppe

C’era un tempo, non lontano, in cui bastava una frase pronunciata sulla soglia di casa: “torna per cena”. Era l’unico vincolo tra il bambino che scendeva in strada e la madre che restava a casa. Nessuna localizzazione, nessun messaggio, nessun controllo minuto per minuto. La fiducia era il filo invisibile che teneva insieme generazioni intere.

Trent’anni fa, l’infanzia si consumava in cortili, piazze e campetti improvvisati. Alle scuole medie, la tecnologia non era ancora entrata nelle tasche: al massimo qualche gettone nella tasca dei jeans per telefonare da una cabina. Anche nei primi anni 2000, quando i cellulari iniziarono a comparire, non rappresentavano una catena digitale: servivano per dire “sono arrivato”, non per trasmettere la propria posizione in tempo reale. Era la stagione della libertà, della sopravvivenza fatta di corse, di orari approssimativi, di sguardi che si perdevano per ore.

Oggi, invece, assistiamo a una metamorfosi silenziosa. Le madri e i padri che ieri crescevano senza controlli, oggi si scoprono carcerieri digitali dei loro figli. AirTag cuciti negli zaini, nei vestiti, nelle scarpe. App che tracciano i percorsi, notifiche che squillano a ogni spostamento. Una tonnellata di messaggi gratuiti, un flusso continuo che annulla il silenzio, che cancella la distanza, che rifiuta il vuoto.

È un paradosso generazionale. Chi ha vissuto l’adolescenza senza telefoni, chi ha salutato i genitori la mattina per poi rivederli al tramonto senza che nessuno sapesse cosa fosse successo in mezzo, oggi non riesce ad accettare che i figli possano scomparire anche solo per mezz’ora dal radar digitale. La libertà che avevamo non è stata trasmessa: si è trasformata in ansia, in paura, in controllo.

Ma di cosa abbiamo paura? Della città che percepiamo più insicura? Dei racconti mediatici che amplificano ogni rischio? O piuttosto di noi stessi, incapaci di affidare al caso e alla fiducia ciò che un tempo era normale? La società della sorveglianza non è stata imposta dall’alto: l’abbiamo costruita noi, genitori e figli, a colpi di notifiche e localizzazioni condivise.

La tecnologia è diventata il nuovo cordone ombelicale, mai reciso del tutto. Un filo invisibile che non lascia più spazio all’assenza, al rischio, alla crescita autonoma. Se ieri si sopravviveva agli anni Ottanta e Novanta tra motorini scassati e campetti di periferia, oggi sembriamo incapaci di immaginare che un ragazzo possa cavarsela senza un GPS addosso.

Forse il vero trauma non è il pericolo esterno, ma l’incapacità di perdere di vista chi amiamo. Un’incapacità che dice molto della fragilità adulta, più che dei figli stessi. Nel passaggio da una generazione all’altra abbiamo smarrito il valore dell’attesa, il coraggio di lasciare andare, la fiducia nel ritorno.

Eppure, la memoria ci ricorda che siamo sopravvissuti senza chat, senza tracciamenti, senza check-in. Forse sarebbe utile ricordarlo: la libertà non è mai stata assenza di rischi, ma esercizio di fiducia. E non c’è AirTag che possa sostituirla.

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