Generazione Z: l’arte sottile delle alleanze tra brand e influencer

Mentre il dibattito pubblico si concentra sull’intelligenza artificiale e sulla crisi dei media tradizionali, un’analisi pubblicata il 13 luglio dalla Harvard Business Review svela un dato tanto semplice quanto cruciale: per parlare alla Generazione Z, i brand devono smettere di urlare e iniziare ad ascoltare.
Non basta più la campagna patinata, lo spot da 30 secondi in prima serata, il testimonial di grido. Questa generazione, cresciuta tra la saturazione pubblicitaria e la bulimia informativa, riconosce immediatamente il linguaggio artefatto. È qui che entra in scena la figura dell’influencer, non più semplice volto promozionale ma intermediario culturale.

Secondo lo studio, le partnership di maggior successo sono quelle che riescono a integrare il prodotto nel flusso narrativo dell’influencer senza romperne la coerenza identitaria. L’obiettivo non è “piazzare” un messaggio, ma costruire un racconto in cui il brand diventi parte naturale di una storia già seguita e creduta autentica.
La Generazione Z non compra un paio di scarpe: compra la promessa implicita di far parte di una comunità, di condividere valori, estetiche, cause.

Eppure, dietro la patina della spontaneità, si muovono macchine complesse. Team di marketing analizzano flussi di dati, metriche di engagement, micro-trasformazioni nel sentiment online. L’influencer diventa così nodo strategico di una rete dove si incrociano storytelling, algoritmi e targettizzazione. Un ecosistema che non vive di improvvisazione, ma di ingegneria della persuasione.

Il rischio, avverte HBR, è duplice: da un lato, saturare lo spazio sociale con contenuti sponsorizzati fino a erodere la fiducia; dall’altro, ridurre l’influencer a megafono privo di voce propria. Entrambi gli scenari portano alla stessa conseguenza: la fuga della Generazione Z verso spazi percepiti come più autentici, spesso nascosti ai radar delle grandi piattaforme.

Per i brand, dunque, la sfida è politica prima ancora che commerciale: saper rinunciare al controllo totale del messaggio per lasciare margini di autonomia a chi lo veicola. Significa accettare che l’influencer possa anche dissentire, rinegoziare, contaminare il contenuto. Solo così si preserva la credibilità, moneta rara nell’economia dell’attenzione.

Nel marketing verso la Generazione Z, la vittoria non sta nel vendere subito, ma nel guadagnare un posto stabile nel paesaggio mentale di chi guarda. In questo territorio, la vera risorsa non è il budget, ma la capacità di abitare le conversazioni senza snaturarle. Un’arte sottile, che pochi brand sanno praticare. E che, come insegna la Harvard Business Review, non si misura in clic, ma in fiducia.

di Giuseppe Miccoli

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