Greenwashing o rivoluzione? Il dilemma della comunicazione sostenibile nell’era social

di Giuseppe Miccoli

Nel cuore di agosto, mentre le spiagge europee tremano per incendi, alluvioni e temperature record, un articolo accademico pubblicato sull’Italian Journal of Marketing pone una domanda solo in apparenza semplice: la comunicazione sostenibile ha un impatto reale sui pubblici internazionali dei social media?

Lo studio indaga metriche e percezioni, interazioni e coinvolgimento, ma la questione è tutt’altro che numerica. Dietro ogni “engagement rate” c’è una tensione culturale, politica, etica: i social media sono diventati il nuovo spazio del discorso ecologico. Ma sono anche il luogo dove la sostenibilità si confonde con il brand positioning, l’impegno si piega al marketing, e il green diventa una tonalità cromatica da declinare nel logo.

Secondo la ricerca, il pubblico internazionale risponde in modo positivo ai contenuti legati alla sostenibilità ambientale. Le parole chiave — climate, green, recycle, zero waste — generano interazioni. Eppure, non basta dire “sostenibile” per esserlo. L’utente medio ha sviluppato anticorpi semantici contro il greenwashing, quella pratica con cui aziende e istituzioni colorano di verde operazioni tutt’altro che virtuose.

È in questo cortocircuito che si consuma la partita: la comunicazione sostenibile è percepita come credibile solo quando è coerente, trasparente, narrativa. Quando non urla slogan ma racconta processi. Quando non si limita a mostrare il prodotto ma mette in discussione il modello.

I social, da parte loro, sono un’arma a doppio taglio. Possono amplificare il cambiamento o ridurlo a una performance ecologista da postare tra un unboxing e un meme. Possono essere strumenti di mobilitazione, come nel caso di Fridays for Future, o contenitori tossici di indignazione passeggera.

Lo studio italiano ha il merito di spostare l’attenzione dal cosa si dice al come viene percepito. Perché la sostenibilità non è più solo un tema di policy o innovazione: è una questione narrativa. È il modo in cui costruiamo il futuro nel presente, nei post, nei commenti, nei simboli.

Allora la domanda è un’altra: possiamo comunicare la sostenibilità senza piegarla alle logiche del marketing? Possiamo farlo nei social, dove la visibilità è moneta e l’autenticità è spesso strategia?

Se vogliamo una comunicazione che davvero trasformi, forse dobbiamo accettare una cosa: che la sostenibilità vera non è mai comoda, non è mai virale, non è mai neutra. È conflitto, scelta, rinuncia. Ed è anche il coraggio di dire meno — e fare di più.

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