Habemus lentezza
Habemus lentezza
di Giuseppe Miccoli
Viviamo nel regno del qui e ora, dove ogni pensiero dura quanto un reel e la profondità si misura in secondi di visualizzazione. Tutto è veloce, tutto è social, tutto è digitale. L’identità si costruisce nei feed, la memoria nei cloud, e la coscienza… tra una notifica e l’altra. La realtà è diventata una performance continua: il dolore, il cibo, l’amore — tutto deve essere postato.
Persino la Chiesa, quella dei canti gregoriani e delle encicliche, si è adeguata: ci racconta il Conclave con i reels. Cardinali in silenzio, voci fuori campo ispirate, musica d’ambiente. Eppure, mentre scrolliamo quel contenuto in mezzo a tutorial di trucco e balletti su TikTok, succede qualcosa che ci spiazza.
La fumata bianca.
Improvvisamente il tempo si ferma. Le telecamere puntano alte sul comignolo della Cappella Sistina. Il mondo trattiene il fiato. Nessuna notifica, nessun algoritmo, nessun effetto speciale: solo carta, penna e fede. Dei fogli, scritti a mano. Cardinali che, chiusi tra le mura, si affidano allo Spirito Santo – non a ChatGPT – per scegliere il successore di Pietro.
Niente Intelligenza Artificiale, niente big data, nessuna app che suggerisce il nome papabile più performante. Solo silenzio, preghiera, voti piegati e bruciati in un forno antico. E poi quel fumo che sale, bianco, eterno, identico da secoli. In un mondo dove tutto è cambiato, quella nuvola immobile ci ricorda che qualcosa resiste.
Ed è paradossalmente proprio quella lentezza, quel gesto arcaico, a lasciarci senza parole. Ci colpisce più di qualsiasi filtro Instagram, più della miglior diretta social. Perché è autentico. Perché è mistero. Perché è umano.
Nel bel mezzo dell’orgia digitale, dove persino le emozioni sono sintetizzate da bot, la fumata bianca ci fa sentire — forse per un attimo — parte di qualcosa di più grande, non misurabile in click. È una notifica celeste che ci dice: non tutto può essere aggiornato, accelerato, ottimizzato. E meno male.