La morte in diretta. E noi a guardare

di Giuseppe Miccoli

Sussurra ai peluche: “Stanno arrivando”. Poi muore. In diretta. Con migliaia di occhi incollati allo schermo. Valeria Márquez aveva 23 anni, un salone di bellezza, una presenza costante su TikTok, e una live in corso nel momento esatto in cui la sua vita veniva spezzata da una raffica di colpi di pistola. Stringeva tra le mani un maialino rosa di peluche, regalo ricevuto poche ore prima, oggetto che per lei – aveva detto poco prima in diretta – non era affatto gradito. Lo chiamava “regalo costoso e inquietante”. L’aveva spaventata. Non aspettava chi glielo aveva portato. E non ha fatto in tempo nemmeno a scappare.
«Stanno arrivando», sussurra al peluche, poi si volta. Il rumore degli spari interrompe il flusso digitale.
È morta sul palcoscenico che si era costruita da sola.

La scena è di un’atrocità quasi insopportabile. Non perché inedita, ma perché ormai normalizzata nella cronaca di un paese che ogni giorno conta donne ammazzate a decine. Dieci al giorno in Messico. Non in guerra. Nelle case, nei cortili, nei negozi, nei saloni di bellezza. Valeria diventa però un simbolo tragico di un tempo nuovo: è la vittima di un femminicidio, ma è anche la prima, forse, a morire in diretta sui social in un contesto così assurdo, fragile, intimo. Una morte trasmessa. Una morte che diventa contenuto.

La procura di Jalisco ha aperto un’indagine per femminicidio. Una pista porta a un ex fidanzato. Niente cartelli, niente narcos, nessun regolamento di conti. Solo una giovane donna che dava fastidio a qualcuno. Troppo visibile, troppo indipendente, troppo felice forse. Aveva raccontato, tra le pieghe di quella live, un disagio, un presagio, un’inquietudine.
Ma nel mondo social il dolore deve rimanere performance. E infatti, tra filtri e luci, era solo l’ennesimo contenuto da scrollare.
Fino a quando non è arrivata la realtà.

È questo che colpisce come uno schiaffo: la realtà che irrompe. L’orrore che sfonda il filtro bellezza. Il sangue che interrompe il tutorial. Il corpo che cade davanti a chi guardava. La tragedia di Valeria ci restituisce la misura esatta della degenerazione digitale: un sistema nato per connettere che finisce per essere la vetrina della morte.
Un luogo dove la violenza diventa evento e la morte si trasforma in contenuto virale.

Che sicurezza ci resta, se la violenza può arrivare così, perfettamente sincronizzata col nostro bisogno di esposizione?
Che intimità, se il nostro salotto diventa teatro di morte condivisa? In Messico, come altrove, la macchina mediatica corre più veloce del dolore, e il tempo della pietà si brucia in poche ore.
Intanto il video – o ciò che ne resta – rimbalza da una parte all’altra della rete, sezionato, ingrandito, analizzato. Non per amore della verità, ma per bulimia di immagini.
E così Valeria muore due volte: la prima per mano di un assassino, la seconda per mano della spettacolarizzazione.

C’è qualcosa di insopportabilmente nostro, in tutto questo. Di profondamente occidentale. Di moderno.
Come se la morte, per essere riconosciuta, dovesse prima passare da un algoritmo.
Come se l’unica verità possibile fosse quella mostrabile.
La morte in diretta, la violenza in primo piano, il dolore monetizzato.
Tutto questo è lo specchio che ci riguarda. Che ci interroga. Che ci accusa.

 

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