La solitudine dei campetti vuoti

di Giuseppe Miccoli
Non è nostalgia, è constatazione amara. Rino Gattuso non parla mai per mestiere, ma per ferita. Lo fa con la voce roca di chi ha corso su terreni infangati, tra oratori e piazzette, prima che il calcio diventasse business. «Non so quanti oratori sono stati chiusi, non so quanti ragazzini non giocano più per strada», dice. E in quella frase c’è tutta la crisi silenziosa dello sport popolare.
Un tempo, vent’anni fa, bastavano due pietre a fare i pali, un pallone consumato e un pomeriggio infinito. Oggi restano i campetti a pagamento, le iscrizioni costose, i kit da 500-550 euro l’anno che trasformano il calcio in privilegio. Chi non ha soldi resta fuori. Non è retorica, è statistica sociale.
Gattuso lo sa: i talenti ci sono ancora, «ma sono pochi». Non mancano i piedi buoni, mancano le ore di gioco. Un ragazzo gioca 7-8 ore in una settimana, quando prima ne giocava altrettante in un solo giorno. È una mutazione culturale: meno strada, più schermo.
La gioventù «è diventata un fenomeno a scrivere, a parlare, con l’iPhone e il Samsung in mano per 8-9 ore al giorno». È un’accusa tenera e crudele insieme: la generazione che scrolla, che vive connessa, non ha tempo per correre dietro a un pallone.
Non è solo un problema di calcio. È la fotografia di un Paese che ha smesso di investire negli spazi pubblici, che lascia cadere gli oratori, che non immagina palestre aperte come in altri Stati europei. Il risultato è una spirale: meno strutture, meno gioco, meno talenti. Il calcio come specchio sociale.