L’influencer che volevo essere

di Giuseppe Miccoli
Un sondaggio pubblicato da Morning Consult mostra ciò che molti già intuivano: per la Generazione Z, gli influencer non sono solo figure da seguire, ma modelli aspirazionali.
L’81% dei giovani nati tra la fine degli anni ’90 e il 2010 afferma di seguire regolarmente influencer su piattaforme come Instagram, TikTok e YouTube, e il 57% — più della metà — vorrebbe diventarlo.
Una cifra che dice molto. Il sogno dell’infanzia non è più fare l’astronauta, il medico, il calciatore. È essere un profilo di successo, capace di generare attenzione, collaborazione e vendite. L’influencer non è più “chi ha tanti follower”, ma chi sa trasformare sé stesso in contenuto e capitale.
Essere influencer, oggi, vuol dire vivere nella performance continua: ogni parola, ogni immagine, ogni pensiero deve poter essere monetizzabile, reimpiegabile, remixabile. Il corpo diventa brand. L’identità diventa flusso. La quotidianità diventa strategia.
E più che mostrarsi, si ottimizza la propria immagine: estetica, pensiero, emozioni, tutto calibrato su ciò che può piacere, funzionare, generare engagement.
È una rivoluzione culturale, ma anche un cortocircuito psichico. L’autenticità, parola magica del marketing contemporaneo, viene confezionata e venduta in pacchetti da 15 secondi. Il “parlare di sé” si fa campagna. Il “condividere” si fa call to action.
Eppure non è tutto finto. Dentro quel desiderio di visibilità si nasconde spesso una richiesta di riconoscimento. La Generazione Z cresce in un mondo instabile, saturo di crisi, precarietà e solitudine digitale.
Diventare influencer — anche solo per sogno — significa riappropriarsi di uno spazio narrativo, avere il controllo su come si è visti, avere un pubblico che ascolta. È un modo per non scomparire nel rumore.
I social, dal canto loro, spingono questa tendenza. Ogni piattaforma fornisce strumenti per trasformare gli utenti in creator: insights, statistiche, partnership, sticker per le donazioni, bonus per i video. L’influenza non è più un’eccezione: è l’orizzonte previsto.
Ma cosa succede quando tutti vogliono essere guardati e nessuno vuole guardare? Quando ognuno costruisce un sé per gli altri e nessuno ascolta quello vero? Quando ogni momento è occasione per diventare contenuto?
Il rischio è che la visibilità diventi identità, e che restare invisibili significhi non esistere.
Il sogno di diventare influencer non è più solo una via per la fama. È la condizione stessa per sentirsi parte del mondo. Anche se quel mondo — ogni giorno di più — sembra fatto di riflessi e vetrine.
E forse, in fondo, la Generazione Z non vuole solo influenzare. Vuole solo non sparire.