LinkedIn e il lavoro che diventa racconto personale

LinkedIn, nato come social sobrio del lavoro, è diventato un palcoscenico di narrazioni personali. Non più solo curriculum e annunci, ma confessioni, aneddoti, racconti emotivi.

Il confine tra vita privata e professionale si dissolve. Un licenziamento diventa occasione di rinascita. Una promozione si racconta come favola di riscatto. Persino la fatica quotidiana si trasforma in contenuto motivazionale.

Questa trasformazione riflette due dinamiche. Da un lato, il bisogno di autenticità in un mondo del lavoro sempre più precario e competitivo. Dall’altro, la logica dell’algoritmo: un post personale emozionante genera più interazioni di un’analisi tecnica.

La reputazione non si costruisce più solo con titoli e competenze, ma con la capacità di raccontarsi. È lo storytelling a fare la differenza, più che il merito. Chi sa emozionare guadagna visibilità, chi sa solo lavorare rischia l’invisibilità.

C’è un lato positivo: la narrazione personale umanizza il lavoro, rompe la freddezza dei curriculum. Ma c’è anche un lato oscuro: la spettacolarizzazione della vita professionale. Tutto diventa contenuto, anche la vulnerabilità. E la vulnerabilità, esibita per engagement, smette di essere autentica.

LinkedIn si trasforma così in una piazza ibrida, a metà tra mercato del lavoro e diario intimo. Ma la domanda è: quanto resta del lavoro quando tutto diventa spettacolo?

Il rischio è che la piattaforma che doveva dare visibilità al lavoro finisca per ridurlo a intrattenimento. Un altro passo verso la società dell’algoritmo, dove conta più il racconto che la sostanza.

Giuseppe Miccoli

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