Quel silenzio che avevamo sul comodino.

Quel silenzio che avevamo sul comodino
di Giuseppe Miccoli

Un tempo si dormiva accanto al vuoto. C’era spazio per un bicchiere d’acqua, un libro sottolineato a matita, la radiosveglia che ticchettava in attesa del mattino. Il telefono, se c’era, era altrove. Spento, dimenticato, lasciato a caricare sul tavolo della cucina o nella presa del corridoio, insieme alle chiavi e alla giacca. Non era ancora diventato corpo.

Erano gli anni dei Nokia 3330, dei 3310 indistruttibili, degli SMS pensati, scritti lentamente con il T9, dove anche una “h” fuori posto pesava sul credito. Il telefono era uno strumento, non una finestra. Serviva per comunicare, non per abitarci dentro. Non ci seguiva nel sonno, non ci vegliava. Non ci costringeva a restare svegli.

Sul comodino c’era assenza, ed era quella l’intimità.
Oggi invece, sul comodino, vive il nostro doppio. Uno schermo retroilluminato, una scatola nera sempre accesa, sempre affamata di attenzione. Il telefono si è trasformato da mezzo in ambiente. Non è più qualcosa che si usa, ma qualcosa dentro cui si vive.
E lo teniamo lì, accanto al letto, come fosse una coperta di sicurezza, una lanterna accesa nella notte digitale. Non è più un telefono: è la nostra connessione al mondo. E quindi la nostra prigione.

Abbiamo sostituito il libro con le notifiche, la radio con Spotify, la televisione con TikTok. Non leggiamo più prima di dormire: scorriamo. Non sogniamo più: aggiorniamo. Non spegniamo: mettiamo in modalità aereo, come se bastasse a proteggerci dalla fame di presenza che ci portiamo addosso.

Quello che prima era un gesto discreto – mandare uno squillo, scrivere “buonanotte” – è diventato scroll infinito, bombardamento di immagini, suoni, commenti, pubblicità mascherate da vita. Il telefono non è più scollegato. È un’estensione del nostro corpo, della nostra ansia, della nostra identità performativa.

La camera da letto non è più spazio privato. È uno degli ultimi teatri della socialità pubblica mascherata: il luogo dove si continua a lavorare, a rispondere, a consumare, a esistere per come ci vedono.
E sul comodino, al posto del libro, ora c’è un caricabatterie veloce. Non per noi, ma per lui. Per il nostro piccolo dio di vetro e alluminio.

Ma ogni tanto torna alla mente quella dolce inutilità del telefono d’un tempo. Che non ci chiedeva nulla. Che non ci svegliava nel cuore della notte per una notifica su un video già visto da milioni. Che non ci seguiva nei sogni.
Non è nostalgia. È consapevolezza. Ci siamo fatti sostituire la notte.

E adesso che tutto è collegato, tutto è visibile, tutto è commentabile, ci manca la discrezione del silenzio.
Quel silenzio che avevamo sul comodino.

 

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