Salute mentale e social media: il grido inascoltato di Murthy

Salute mentale e social media: il grido inascoltato di Murthy
di Giuseppe Miccoli

C’è un grido che attraversa silenzioso l’America digitale, un allarme che si leva, limpido e urgente, ma sembra infrangersi contro il vetro blindato delle lobby tecnologiche. A lanciarlo, ancora una volta, è il dottor Vivek Murthy, già Surgeon General degli Stati Uniti, che questo mese ha rimesso al centro del dibattito pubblico l’impatto devastante dei social media sulla salute mentale dei più giovani. Un tema che sembra disturbare, più che allarmare, l’agenda politica americana.

Murthy non usa mezzi termini. Parla di una crisi. Di una generazione che cresce in apnea, tra notifiche e feed infiniti, in un ecosistema digitale che sfinisce invece di nutrire. I dati, d’altronde, non sono più opinioni: il 95% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni frequenta quotidianamente i social network, e oltre un terzo lo fa “quasi costantemente”. Tre ore al giorno bastano per raddoppiare il rischio di ansia e depressione.

Eppure, il mercato tira. E mentre TikTok festeggia video da un’ora e Instagram lancia nuove funzionalità a pagamento per i creator, il Congresso dorme. Murthy, nel suo intervento sul New York Times, chiede etichette di avvertimento sui social come quelle sui pacchetti di sigarette. Una provocazione? No. Una necessità. Come spiegare altrimenti il paradosso di un Paese che mette limiti all’accesso ai film vietati ai minori, ma lascia che un tredicenne scorra per ore contenuti su guerra, suicidio, estetiche tossiche e challenge mortali?

Serve una legislazione che obblighi le piattaforme a rendere trasparenti i propri algoritmi e che limiti le funzioni più manipolative: autoplay, notifiche push, likes seriali. E serve adesso, non tra dieci anni. Come scrisse Zuboff, “la Silicon Valley non aspetta la democrazia”.

Nel frattempo, l’unica resistenza concreta arriva dalle famiglie e da quei pochi insegnanti ed educatori che provano a costruire spazi di senso dentro e fuori lo schermo. Murthy consiglia ai genitori di posticipare l’accesso ai social alla scuola media. Ma sa bene che, in assenza di un cambio strutturale, anche questa è una battaglia impari.

È una sfida culturale, prima ancora che tecnologica. Perché finché continueremo a trattare i social come semplici strumenti e non come ambienti di vita, continueremo a delegare la crescita dei nostri figli a chi vive di clic, di tempo di permanenza, di attenzione catturata.
Il grido di Murthy è il nostro. Sta a noi decidere se vogliamo ancora ignorarlo.

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