Schermi, adolescenti e solitudini digitali

Schermi, adolescenti e solitudini digitali
di Giuseppe Miccoli

C’è una generazione che dorme poco e sogna ancora meno. Le adolescenti svedesi, e con loro milioni di coetanee europee, passano ore con lo sguardo incollato agli schermi, mentre il mondo intorno si dissolve in una veglia continua, fatta di notifiche, scroll compulsivi e un sonno che non arriva mai.

Un nuovo studio condotto dal Karolinska Institute lancia l’ennesimo allarme: più tempo sullo smartphone, meno ore di sonno e più sintomi di depressione. Il campione è vasto – 4.810 studenti svedesi tra i 12 e i 16 anni – ma il dato che emerge è ancora più grande: le ragazze pagano il prezzo più alto. A parità di tempo trascorso online (3-4 ore al giorno, ben oltre i limiti raccomandati), le giovani donne mostrano livelli di disagio mentale doppi rispetto ai coetanei maschi.

Non è solo questione di ore davanti a un display. È lo slittamento di tutto un ritmo vitale: si va a letto tardi, si dorme male, si vive spostati su un fuso orario che non corrisponde più a quello della natura. Il corpo perde i suoi segnali, la mente si spegne a intermittenza. La ricerca lo chiama “displacement del sonno”, ma è qualcosa di più profondo: una dislocazione dell’essere.

Secondo i ricercatori, la correlazione è chiara, anche se non definitiva. Ma il quadro è coerente con altri studi europei, come quello norvegese che ha seguito oltre 45mila studenti universitari, individuando un nesso tra uso dello smartphone a letto, insonnia e depressione.

Non servono, oggi, crociate moraliste contro la tecnologia. Ma servirebbe, questo sì, un pensiero critico sulle dipendenze silenziose che plasmano l’adolescenza. La solitudine digitale non si cura con un’app di mindfulness, né con un decalogo da bacheca scolastica. Servirebbe un’educazione all’uso del tempo, un’ecologia della mente, e soprattutto adulti capaci di disconnettersi per primi.

Gli studiosi, con cautela, suggeriscono che una riduzione dell’uso degli schermi potrebbe alleggerire il carico depressivo sulle giovani donne. Ma è un’ipotesi che si scontra con la realtà di una cultura che monetizza ogni secondo di attenzione e che trasforma la fragilità in target pubblicitario.

Forse bisognerebbe partire da una domanda più radicale: a chi giova che le nostre figlie non dormano più?

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