Social media: il tempo che ci rubano, l’informazione che ci lasciano

di Giuseppe Miccoli
Due ore e mezza al giorno. Tanto, in media, passiamo a scorrere contenuti sui social. Tradotto: 864 ore l’anno, e se la matematica è onesta, più di cinque anni interi della nostra vita trascorrono così, pollice contro schermo, occhi su immagini, video, testi e pubblicità.
Dietro questo tempo non c’è solo intrattenimento. C’è un’economia precisa, che monetizza ogni nostro gesto, ogni scroll, ogni click. Le piattaforme social sono oggi il principale filtro tra noi e il mondo. Ma cosa succede quando questi filtri diventano anche il nostro unico specchio?
Il Reuters Institute Digital News Report 2023, pubblicato a giugno, racconta una tendenza che inquieta: la fiducia nelle notizie digitali è in calo, passata dal 42% al 40% in un solo anno. E c’è di più: solo il 17% degli utenti è disposto a pagare per accedere alle notizie, mentre molti hanno disdetto o rinegoziato abbonamenti. Il risultato è un mercato dell’informazione sempre più fragile, dipendente da modelli pubblicitari che, paradossalmente, alimentano il rumore di fondo e non la qualità del dibattito pubblico.
I giovani si affidano sempre di più ai social media come fonte primaria di informazione, mentre chi ha più di 35 anni resta legato ai media tradizionali. È un divario generazionale che non si limita alle tecnologie: è una frattura nel modo in cui le persone formano opinioni, selezionano priorità e interpretano la realtà.
E poi c’è Facebook, l’ex gigante che perde peso: oggi solo il 28% degli utenti vi accede per leggere notizie, contro il 42% del 2016. La sua discesa non significa meno tempo online, ma più dispersione: gli utenti migrano verso piattaforme più frammentate, dove l’informazione è spesso fusa all’intrattenimento, all’ironia, alla provocazione.
Viviamo in una bolla di contenuti che si rinnova di secondo in secondo. Ma dentro questa bolla, la domanda resta: quanto di quel tempo passato online ci informa davvero, e quanto invece ci addormenta?