Twitter, tra abbonamenti e caos identitario

Nel nuovo corso della piattaforma, il “blue check” non è più un riconoscimento di autenticità, ma un servizio acquistabile. Dodici dollari al mese per il badge blu, venti per altri vantaggi. L’idea di Elon Musk è semplice: monetizzare la credibilità.
Eppure, la credibilità non è una merce. L’esperimento sta generando un paradosso: chi paga viene premiato, chi non paga viene penalizzato. Non importa se sei un giornalista, un attivista o una figura pubblica che ha guadagnato la fiducia sul campo: senza abbonamento, la tua voce affonda nell’algoritmo.
Questa trasformazione non riguarda solo il business model, ma la natura stessa del discorso pubblico online. Twitter, nato come spazio di micro–giornalismo e confronto, rischia di diventare un mercato di visibilità. La democratizzazione promessa si rovescia in oligarchia: la voce di chi paga conta più della voce di chi partecipa.
Il cambiamento ha già avuto effetti concreti: proliferano i profili “verificati” ma poco credibili, mentre i vecchi account istituzionali perdono autorevolezza. Il badge non dice più “questo utente è autentico”, ma “questo utente ha pagato”. Una rivoluzione simbolica che mina la fiducia complessiva nella piattaforma.
Il nodo non è solo economico. È politico. Se l’identità digitale diventa privilegio, la sfera pubblica si restringe. Non più confronto aperto, ma arena filtrata dal reddito. La conversazione si trasforma in un privilegio commerciale.
La promessa originaria dei social – dare voce a chiunque – si sbriciola. E con essa si incrina l’idea di una rete come spazio democratico. Siamo di fronte a un passaggio epocale: dalla democrazia digitale all’oligarchia di abbonati.
Giuseppe Miccoli