Un post-it sulla porta

Post it

di Giuseppe Miccoli

Era un quadratino giallo, niente di più. Appiccicato in fretta, inclinato, quasi trasparente dopo anni di sole e polvere. Eppure, nei primi anni Novanta, quel post-it lasciato sulla porta di casa era un modo essenziale e disperatamente umano di comunicare l’imprevisto, la tragedia, la corsa contro il tempo. “È morto mio nonno. Sto partendo. Ti chiamo quando posso.” Poche parole, strette l’una all’altra come a non cadere.

In un tempo senza notifiche, localizzazioni o chat istantanee, l’urgenza passava attraverso strumenti minimi: un biglietto infilato sotto la porta, un messaggio sul frigorifero, la promessa di una telefonata “da una cabina, appena trovo un gettone”. La comunicazione era un atto di fiducia totale, fragile come la carta che la sosteneva.

Il lutto, allora, non aveva bisogno di essere esposto. Non esistevano post commemorativi né memorie digitali a ripresentarsi ogni anno. Esisteva invece la discrezione di un foglio attaccato con lo scotch: un silenzio che parlava più di qualunque discorso pubblico. Bastava un colpo di vento perché tutto svanisse, e proprio in quella precarietà si collocava la verità dell’esperienza.

Chi riceveva quel post-it non poteva rispondere subito. Doveva attendere. L’attesa era parte della comunicazione, una forma di rispetto verso chi stava vivendo il dolore. Aspettare la telefonata da una cabina telefonica, un telefono fisso che squillava nel pomeriggio, il rumore della monetina che apriva un varco di pochi minuti.

La morte di un nonno attraversava ancora le case come un vento freddo e fermo. Non era mediata da protocolli né da parole standardizzate. Era una notizia che viaggiava con le persone, in treno o in autobus. Se non potevi dirlo guardando negli occhi, lo affidavi a un biglietto scritto male, con la grafia tremante delle partenze improvvise.

C’era, senza dichiararlo, una dimensione politica in questo modo di comunicare. L’essenzialità della parola riportava tutto al suo nucleo umano, senza algoritmi, senza “stati”, senza distribuzioni automatiche. Due persone – chi partiva e chi restava – erano legate da un frammento di carta che diceva tutto ciò che serviva sapere. Nessun rumore, solo relazione.

La cabina telefonica era il luogo dove quelle relazioni si ricomponevano. Uno spazio pubblico che diventava privato per pochi istanti. Le porte sbattevano, la gente aspettava, il tempo scorreva. E tu cercavi di dire “sto bene, torno presto” in pochi secondi, misurando le parole perché ogni parola aveva un costo, e quindi un peso.

Rileggendo oggi quel post-it – o immaginandolo, perché molti non sono sopravvissuti agli anni – ci si accorge che conteneva una pedagogia della presenza: dire poco, dire l’essenziale, dire solo ciò che serve. Non c’era romanticismo nella povertà degli strumenti, ma c’era un’intensità che oggi, sommersi dalle notifiche, fatichiamo a ritrovare.

Eppure, quel quadratino giallo continua a insegnarci qualcosa: che un gesto minimo può contenere un mondo, che la fragilità è spesso l’unico linguaggio possibile, che il dolore non chiede retorica ma ascolto. Forse dovremmo recuperare il valore delle parole scarne, scritte in fretta ma con la certezza che chi le leggerà le ascolterà davvero.


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