X si guarda allo specchio: l’identità è un algoritmo

di Giuseppe Miccoli

X — il social un tempo noto come Twitter — vuole molto di più.
Vuole sapere cosa ti interessa, quali competenze hai, quali link ti rappresentano. Non più uno spazio biografico sintetico, ma un curriculum diffuso, pronto per il mercato, integrato nella logica della visibilità performativa.

È la nuova fase del social targato Elon Musk: trasformare ogni profilo in vetrina, ogni utente in prodotto di sé stesso. Le biografie si espandono: sezioni per gli interessi, categorie professionali, connessioni esterne, portfolio. L’identità non è più una suggestione: diventa un database dinamico, aggiornabile, ottimizzato per il branding.

Questa evoluzione racconta molto. Twitter non è più la piazza delle battute e degli scontri lampo. È diventato un ambiente dove la rilevanza si misura, dove contano i numeri, le affiliazioni, le competenze esibite. Si chiede all’utente di raccontarsi non come persona, ma come profilo spendibile.

È un processo che sembra innocuo, ma non lo è. Perché la personalità si contrae, si adatta alle categorie previste, si piega all’algoritmo del merito percepito. L’ironia sparisce, l’ambiguità viene scoraggiata. Bisogna essere chiari, dichiarati, orientati.

In fondo, è l’ennesimo segno che la rete — nata per aprire spazi — ora li chiude. Chi non si definisce, chi non si posiziona, rischia di non esistere. Ma in questo bisogno costante di “spiegarsi meglio”, c’è anche una triste confessione: la parola non basta più. Serve il contesto, la specializzazione, il pedigree digitale.

E così X, nel suo tentativo di rinascita, si guarda allo specchio. Ma il riflesso che restituisce è quello di una piattaforma dove l’identità è già moneta, e dove l’autenticità è un formato da ottimizzare.

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